Caro Allevatore,
in questa terza uscita dell’aggiornamento Tecnozoo affronteremo un tema molto sentito: la chetosi, una condizione metabolica che riguarda un considerevole numero di vacche nell’immediato post partum, caratterizzata da un aumento dei corpi chetonici (aceto-acetato, acetone e ß-OH-butirrato, quest’ultimo il più presente, rappresentando circa il 70% di tutti i corpi chetonici) a livello di liquidi organici (sangue, urina e latte) e che spesso si accompagna a varie problematiche sanitarie (febbre, metrite, dislocazione abomasale, mastite, etc.) e zootecniche (forte calo dell’appetito, importante perdita di peso, scarsa produzione di latte, stato generale dell’animale abbattuto e letargico) con conseguenti gravi perdite economiche.
Ma da dove viene la chetosi e quale è la sua correlazione con gli stati infiammatori pre-parto?
Andiamo ad analizzare gli ultimi studi a riguardo e la gestione energetica in transizione con gli approfondimenti a cura del nostro tecnico Pierantonio Boldrin.
Intendendo per chetosi nella vacca una condizione metabolica dove il contenuto di corpi chetonici nel sangue supera il valore fisiologico di 1,2 mmol/l per il ß-OH-butirrato, bisogna comprendere qual è l’origine di questo aumento. I chetoni possono avere una provenienza esogena (dalla dieta) o più comunemente una provenienza endogena (dal metabolismo epatico).
Normalmente si ritiene che l’instaurarsi della chetosi derivi da uno stato di BEN (bilancio energetico negativo) che si realizza all’esordio della lattazione per un deficit energetico tra le richieste della produzione del latte e la capacità ingestiva della vacca nel post partum; ciò scatena una lipomobilizzazione dai tessuti di riserva di trigliceridi sotto forma di acidi grassi liberi non esterificati (NEFA), che riversati nel torrente circolatorio ematico raggiungono il fegato dove normalmente vengono esterificati e riversati nuovamente nel sangue come VLDL.
Qualora la capacità epatica di riesterificazione non sia sufficiente (per un’eccessiva lipomobilizzazione e/o una carenza di fattori lipotropi come la colina) si verifica un accumulo di trigliceridi a livello epatico che danno origine a lipidosi epatica e compromissione della funzionalità del fegato, con ulteriore deficit di glucosio da ridotta neoglucogenesi.
Inoltre, se la capacità mitocondriale di ossidazione è compromessa per la ridotta disponibilità di intermedi del ciclo degli acidi tricarbossilici a causa di carenza energetica, si verifica una produzione di corpi chetonici che si possono accumulare a livello ematico, se non vengono utilizzati dagli organi periferici.
In realtà, i corpi chetonici rappresentano per l’organismo una fonte energetica alternativa al glucosio mancante (ad esempio il cervello riesce a sfruttarli in senso energetico potendo essi superare la barriera emato-encefalica a differenza dei NEFA) ma in presenza di un loro accumulo notiamo effetti negativi sul centro della fame e quindi sull’appetito, sul sistema immunitario e anche sullo sviluppo di oociti ed embrioni. Da qui le conseguenze sanitarie e zootecniche negative di animali chetosici rispetto a quelli non chetosici.
Tuttavia l’eziologia della chetosi basata sul BEN non sembra così completamente convincente, visto che sostanzialmente tutte le vacche sperimentano un deficit energetico a inizio lattazione e solo alcune di esse sviluppano chetosi; inoltre, l’accumulo dei corpi chetonici è la causa delle malattie correlate alla chetosi e delle ridotte performance produttive e riproduttive delle vacche chetosiche o piuttosto la reazione metabolica ad agenti causali (stress?) che poi determina tali conseguenze?
Ci sono fondamentalmente due diversi approcci per classificare la chetosi relativi alla quantità di corpi chetonici presenti a livello ematico oppure all’origine e al tempo di comparsa della condizione chetosica. Sulla base del livello quantitativo di corpi chetonici nel sangue la chetosi viene distinta in chetosi subclinica (SK) per valori di ß-OH-butirrato nel sangue >1,2 mmol/l e chetosi clinica (CK) per valori superiori a 2,9 mmol/l.
La forma clinica di chetosi (CK), a differenza della SK, si accompagna a perdita di appetito e peso con scarsa produzione di latte e feci asciutte.
La classificazione invece secondo tempo d’insorgenza e origine dei corpi chetonici riconosce tre tipologie di chetosi definite come: chetosi di tipo I, di tipo II e di tipo III.
La tipo I (o chetosi primaria) si verifica nelle prime settimane di lattazione ed è definita in questo modo in quanto assimilabile al diabete mellito di tipo I nell’uomo e caratterizzata da ipoinsulinemia per carenza cronica di glucosio indotta dalla precedenza di utilizzo dello stesso da parte della mammella rispetto agli altri organi.
La tipo II (per analogia col diabete mellito umano di tipo II), o chetosi secondaria, compare immediatamente a ridosso del parto e si caratterizza per iperinsulinemia e iperglicemia ed è tipica di animali estremamente grassi al parto con rischio di eccessiva lipomobilizzazione, lipidosi epatica e conseguente depressione della funzionalità epatica gluconeogenetica e immunitaria.
La tipo III, infine, deriva dall’assunzione di corpi chetonici mediante diete che contengono insilati alterati derivanti da indesiderate fermentazioni clostridiche, con alti livelli di acido butirrico.
Per valutare la possibile causalità tra stato infiammatorio cronico e chetosi dovremmo chiederci sia se la risposta infiammatoria precede la chetosi, sia quale può essere la sorgente dell’evento infiammatorio, e in ultimo come questo può contribuire allo sviluppo della chetosi. Un interessante studio (Zhang et al.,2016) mostra come vacche che successivamente al parto hanno presentato chetosi clinica, alle settimane -8 e -4 dal parto avevano livelli molto alti dei maggiori fattori pro infiammatori quali IL-6, TNF, SAA e lattato, rispetto a vacche non chetosiche dopo il parto.
Quindi, l’evento infiammatorio sarebbe precedente e predisporrebbe alla chetosi. Cause d’infiammazione potrebbero essere in preparto infezioni mammarie o stress da sovraffollamento o termico o disturbi digestivi, soprattutto di tipo acidogeno ruminale e/o intestinale. Quest’ultima condizione è spesso correlata allo sviluppo e alla liberazione di endotossine (LPS) in grado di esacerbare l’evento infiammatorio e alterare il metabolismo glucidico e lipidico, innescando in tal modo un pro processo a cascata che porta all’aumento dei corpi chetonici.
Altri studi hanno evidenziato in corso di chetosi una minor capacità chemiotattica e ridotta efficienza ossidativa dei granulociti neutrofili, verosimilmente legata ad una minor disponibilità di glucosio per queste cellule e ad una certa carenza di calcio, importante mediatore cellulare, ipocalcemia che spesso accompagna e consegue allo stato di lipidosi epatica e chetosi. In corso di chetosi aumentano altresì in modo consistente anche i biomarcatori della flogosi come l’LPS (lipopolisaccaride) a conferma della forte componente infiammatoria associata a tale patologia.
Tutte queste condizioni spiegano bene come le vacche chetosiche siano più facilmente colpite da malattie quali la ritenzione di placenta, la metrite, la mastite e la dislocazione dell’abomaso, da 3 a 8 volte di più, rispetto alle vacche sane e abbiano un rischio decisamente maggiore di riforma nei primi 60 giorni dopo il parto rispetto alle vacche non chetosiche.
La risposta viene ancora una volta dalla natura, che contiene in sé i rimedi più efficaci per riequilibrare condizioni non ottimali di tipo ossidativo e infiammatorio, sfruttando l’effetto di polifenoli e salicilati che, opportunamente selezionati e dosati, sono stati utilizzati per la formulazione di Normoterm Orac.
Cosa riportano gli studi a riguardo dell’effetto dei polifenoli e dei salicilati? Diversi studi sui fitocomposti naturali, come polifenoli e salicilati, hanno ormai ampiamente dimostrato la loro efficacia sul metabolismo animale, agendo come antiossidanti (e prevenendo di conseguenza danni alle cellule dovuti alla perossidazione lipidica della membrana cellulare) e attenuando stati di infiammazione.
Uno delle fonti maggiori di polifenoli deriva dalla lignina ricavata dal Pinus taeda. La LIGNINA è un pesante complesso polimerico costituito da unità fenilpropaniche. Ci sono tre monomeri presenti in rapporti diversi in tutte le lignine: alcol comiferilico, alcol cumarilico e l’alcol sinapilico. L’unione di questi monomeri crea una classe di fenoli comunemente chiamati lignani, i quali nella pianta hanno una funzione di difesa dai patogeni (funghi, batteri e virus) e di protezione di tipo antiossidante delle parti sensibili della pianta (rami giovani, foglie, gemme frutti) dalle radiazioni solari. I lignani, introdotti con la dieta nei mammiferi, vengono modificati dai batteri intestinali, vengono assorbiti e poi sono soggetti alla circolazione entero-portale.
Meccanismo d’azione
Un concentrato polifenolico, derivante da un processo di estrazione e parziale idrolisi della cellulosa dal legno di Pinus taeda, se assunto con la dieta degli animali è responsabile delle seguenti azioni:
1. Blocco radicali liberi
2. Azione antibatterica
3. Azione antivirale
4. Azione antimicotossine
5. Azione antidiarroica
L’acido salicilico, che è il composto attivo dell’aspirina, nella sua forma acetilata, è una sostanza che è stata estratta per la prima volta dalla corteccia del salice piangente.
Questa sostanza che viene prodotta dalle piante per proteggersi da attacchi chimici, fisici e biologici è un antiinfiammatorio utile in diverse situazioni febbrili come antipiretico o come leggero analgesico.
Meccanismo d’azione
1. Riduzione delle prostaglandine (PG) per blocco della ciclossigenasi
2. Effetto antiossidante dell’aptoglobina
3. Riduzione temperatura corporea per azione sui neuroni termoregolatori
Nelle prime settimane dopo il parto, la richiesta di nutrienti per sostenere la produzione di latte aumenta rapidamente, così come aumenta il rischio di sviluppare chetosi.
È possibile adottare una serie di misure di gestione e nutrizione per ridurre l’insorgenza e l’impatto della chetosi sub clinica e clinica nei bovini. La gestione preventiva si concentra sul punteggio della condizione corporea (BCS) prima del parto e sul miglioramento dell’assunzione di sostanza secca (DMI) dopo il parto.
Descrivendo sinteticamente il destino metabolico degli acidi grassi mobilizzati dal tessuto adiposo in corso di BEN capiamo l’utilità di implementare alcuni specifici additivi nella fase di transizione.
Gli acidi grassi liberi non esterificati (NEFA), attraverso il torrente ematico, raggiungono il fegato e all’interno della cellula epatica si legano prima al coenzima A e successivamente come acil-coA alla carnitina, grazie alla quale vengono trasportati all’interno del mitocondrio, organulo intracellulare dell’epatocita dove avviene l’ossidazione dell’acido grasso e la produzione di energia.
La completa ossidazione è però vincolata alla disponibilità di precursori energetici del ciclo ossidativo e in particolare dell’acido ossalacetico, derivante dal metabolismo dei glucidi. In carenza di ossalacetato si verifica un’ossidazione parziale, invece che completa, e gli acetil-CoA, che derivano dall’ossidazione degli acidi grassi o dall’acido piruvico a sua volta prodotto dal catabolismo degli aminoacidi o dai glucidi, si combinano tra di loro per produrre i corpi chetonici. Dalla condensazione di due molecole di acetil-CoA si forma l’acetoacetato (AcAc) e da esso l’acetone e il ßidrossibutirrato (BHBA ).
Un eccessivo apporto di acidi grassi in sede epatica mitocondriale, in assenza di adeguati livelli di acido ossalacetico, portano quindi ad un’elevata produzione di corpi chetonici che, non riuscendo ad essere utilizzati nei tessuti dell’organismo, si accumulano nel sangue dando origine alla chetosi e a un circolo vizioso di ulteriore peggioramento del BEN, che se non interrotto progredisce fino alla perdita dell’animale; e se in sede epatica si verifica una carenza di carnitina si realizza l’impossibilità dei NEFA affluiti al fegato di entrare nel mitocondrio per essere ossidati e l’accumulo degli stessi all’interno degli epatociti, dando origine alla steatosi o lipidosi epatica, condizione patologica che spesso si accompagna alla chetosi di tipo II dell’immediato post parto.
Negli ultimi anni si è sempre più affinata la ricerca sul razionamento della vacca da latte e una delle ultime frontiere è rappresentata dalla nutrizione aminoacidica. Negli animali d’allevamento monogastrici questa scienza viene applicata ormai da anni, ma nei poligastrici i prestomaci rendono meno scontate le risposte. È indubbio che anche la vacca abbia degli aminoacidi cosiddetti essenziali, cioè che non riescono ad autoprodursi e per questo bisogna introdurli con la dieta. Fortunatamente le fermentazioni ruminali riescono sopperire in parte, ma soprattutto per bovine ad alta produzione il fabbisogno non riesce ad essere soddisfatto. Per questo si parla di alcuni aminoacidi limitanti tra cui i più importanti sono Metionina, Lisina, Istidina.
Questo tipo di razionamento deve rispettare due requisiti essenziali: gli aminoacidi devono mantenere un giusto rapporto tra di loro e se supplementati devono essere rumino-protetti per non finire degradati nel rumine.
Una fase dell’allevamento dove si è evidenziato un particolare risvolto nell’utilizzo degli aminoacidi è la fase di fine asciutta e quella del post parto.
La produzione di latte è correlata alla quantità di lattosio disponibile, la quale è direttamente proporzionale alla funzionalità epatica e ai livelli di glucosio da essa dipendenti. La ridotta produzione di glucosio a inizio lattazione in corso di chetosi riduce i livelli di prolattina e l’ottimale maturazione delle cellule secernenti della ghiandola mammaria con una conseguente diminuzione della capacità produttiva lattea in base alla gravità della chetosi. Stime prudenziali suggeriscono che le perdite possono variare da 1 a 3 kg al picco di lattazione e che possono superare i 350 kg di produzione persa durante l’intera lattazione (Ospina et al., 2010).
L’effetto negativo del BEN che si verifica nella prima fase di lattazione sulle prestazioni riproduttive successive è ben documentato ed è ormai noto che la motivazione fisiologica del quadro è la rottura dell’asse ipotalamo-ipofisi-ovaio (Butler, 2003). Sia la durata sia l’entità del BEN sono state associate a un aumento delle concentrazioni dell’ormone della crescita e a una diminuzione delle concentrazioni di insulina e IGF; questo determina uno stato di “fame metabolica” per carenza di glucosio da parte dei neuroni ipotalamici del nucleo arcuato, con gravi ripercussioni sulla sintesi del GNRH e della pulsatilità di LH, riducendo direttamente la competenza follicolare e la sua risposta alle gonadotropine circolanti (Lucy, 2001; Butler, 2003).
Ecco perché, in caso di BEN e riduzione dell’entità del picco di LH, avremo casi di bovine anovulatorie e ripresa ritardata dell’attività ciclica ovarica, aumento dell’incidenza di malattia ovarica cistica e una minore probabilità di gravidanza alla prima inseminazione (Opsomer et al., 2000; Ospina et al., 2010; McArt et al., 2012). In uno studio (Walsh et al.2017) la probabilità di gravidanza si è ridotta del 20% nelle vacche con diagnosi di chetosi subclinica nella prima o nella seconda settimana dopo il parto.
Tuttavia, le vacche al di sopra della soglia di chetosi subclinica sia nella prima sia nella seconda settimana dopo il parto avevano il 50% di probabilità in meno di essere gravide dopo la prima inseminazione. Allo stesso modo il periodo parto-concepimento è aumentato nelle vacche che hanno manifestato concentrazioni di BHBA elevate la prima settimana dopo parto a 124 giorni e addirittura a 130 giorni per le vacche con chetosi subclinica sia la prima sia la seconda settimana dopo il parto, rispetto alle vacche che non hanno mai avuto concentrazioni di BHBA elevate che avevano un parto-concepimento.
Quanto detto relativamente alle conseguenze della chetosi su produzione di latte, fertilità, aumentata suscettibilità a patologie correlate e aumentato rischio di riforma fanno capire la notevole importanza economica della chetosi come causa di mancata redditività nell’allevamento della vacca da latte. La chetosi genera costi diretti legati ai trattamenti specifici per chetosi, al tempo di lavoro dedicato agli animali chetosici (monitoraggio e terapie), al latte perso per la minor capacità produttiva; ma anche costi indiretti, ancor maggiori, derivanti da patologie concomitanti favorite dalla chetosi come la ritenzione di placenta, la metrite, la dislocazione dell’abomaso, l’aumento del tasso di riforma e la riduzione del tasso di concepimento unito ad un aumento dei giorni aperti.
Il costo di questi eventi varia tra primipare e pluripare, attestandosi su un valore medio prudenziale di circa 85 € nelle primipare, a oltre il doppio (180 €) nelle vacche con più parti.
Il grafico 1 mostra le perdite economiche per vacche primipare (in verde), secondipare (in blu) e pluripare (in rosso) espresse in dollari per vacca/anno in un allevamento dove non si attua un monitoraggio e trattamento precoce della chetosi.
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Perché usare Ketonic per la riduzione del rischio di chetosi?
In conclusione, dopo aver analizzato le dinamiche metaboliche, non solo alimentari, che possono scaturire fenomeni di chetosi, possiamo dire che investire sulla salute delle nostre vacche ha sempre senso da un punto di vista etico ma nel caso di questa patologia diventa imprescindibile anche sotto il profilo economico con ROI che possono arrivare anche a valori di 1:5.
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